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I sommersi e i salvati

Questo libro tocca i nodi più profondi della responsabilità morale dell'uomo nei confronti dell'inumana esperienza di Auschwitz. In esso Levi affronta tematiche quali la memoria, il potere, la collaborazione, e le elabora alla luce della sua esperienza personale.

La memoria dell'offesa (capitolo primo):

"La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace". Con quest'affermazione l'autore apre la parte relativa alle responsabilità del terribile evento-Auschwitz. A suo parere l'offesa subita da lui e da molte migliaia di uomini è insanabile, ma ciò non vuol dire che i responsabili comprendano la gravità delle loro azioni. Le "scuse" più frequenti, invece, seppure espresse con formulazioni diverse, sostanzialmente vengono tutte a significare: l'ho fatto perché sono stato costretto o comandato, o per l'educazione impartitami, o per l'ambiente in cui sono cresciuto, insomma, merito il perdono perché io stesso sono stato a mia volta "vittima". Si tratta non solo di menzogne, ma di un autoinganno che consente al colpevole di lavarsi dei propri crimini. A favorire tale verità di comodo interviene poi anche il tempo, perché più si allontanano gli eventi, più risulta semplice negare il passato. La pressione che uno stato totalitario può esercitare sull'individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente tre: "la propaganda, lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni, il terrore". Tutto ciò non può comunque giustificare e ancor meno cancellare le colpe commesse: è infatti palese l’esagerazione e quindi la manipolazione (volontaria o inconscia) del ricordo come dimostrano i casi di numerosi uomini educati prima che il Reich divenisse totalitario e che tuttavia, in virtù di scelte opportunistiche e di comodo, hanno ugualmente deciso di aderire. C’è comunque da dire che la distorsione dei fatti è spesso limitata dall’obiettività dei fatti stessi grazie a documenti, testimonianze o contesti storicamente acquisiti al contrario di quella delle motivazioni che hanno addotto a determinate azioni, arrivando persino alla soppressione del ricordo stesso: proprio per questo l'intera storia del Terzo Reich "può essere riletta come una storia contro la memoria…, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà stessa".

Allo stesso tempo l’autore riconosce anche in chi ha subito ingiustizie e offese la tendenza a sorvolare sugli episodi più dolorosi, puntando l’attenzione su tregue, intermezzi insoliti o momenti di respiro, certamente non col bisogno di discolparsi: a scopo di difesa, la realtà può essere distorta non solo col ricordo, ma nell’atto stesso in cui si verifica, rifiutando una verità insopportabile e costruendosene un’altra.

La zona grigia (capitolo secondo):

"L’ingresso in lager era un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il noi perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno.[...].Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un’aggressione concentrica da parte di coloro in cui si ravvisava di trovare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere." 

In questo capitolo Levi sviluppa il tema fondamentale dell'ambiguità umana provocata fatalmente dall'oppressione. Obiettivo primario del governo hitleriano, come dimostra l’insensata foga di uccidere, negli ultimi mesi della guerra, il più prigionieri ebrei possibili anche di fronte alle truppe alleate che inesorabilmente avanzavano (anziché dirottare le forze nel cercare di salvare il salvabile) era quello di estinguere la razza impura degli ebrei, contrapposta a quella ariana. Ma questa distruzione non è stata esercitata esclusivamente a livello fisico: le intolleranze, le aggressioni e successivamente le leggi razziali emanate che costituivano obblighi sempre più assurdi e umilianti, hanno mirato a una distruzione psicologica. Dunque all’interno del lager questa forma di violenza non può che essere amplificata a dismisura, costringendo in condizioni limite i prigionieri, che inevitabilmente sono portati a sottostare alla logica del luogo in cui si trovano, dove per sopravvivere è necessario scendere a compromessi anche con la propria umanità: la "zona grigia" è la classe "ibrida" dei prigionieri-funzionari, un'area indefinibile, che insieme separa e congiunge i capi ed i servi. Si tratta appunto di quei prigionieri privilegiati, che si sottraggono, agli occhi dell'autore, alla semplificazione, tipica dell'uomo, tra "buoni" e "cattivi", tra amici e nemici. Coloro che costituiscono la "zona grigia" confondono quindi il nostro bisogno di giudicare. Ma anche tra queste persone ambigue e pronte al compromesso è necessario compiere una distinzione. Vi era chi agiva esclusivamente in vista della propria salvezza, ma anche chi subiva il contagio degli oppressori e tendeva inconsciamente ad identificarsi con loro. Nell'enorme maggioranza dei casi, tuttavia, il comportamento di questi individui è stato frutto di costrizione.

Un caso limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos, una Squadra Speciale addetta alla gestione dei crematori. Queste erano costituite in massima parte da ebrei, a tal punto arrivavano la perfidia e l'odio tedeschi. Si doveva ancora una volta dimostrare che gli ebrei, "sotto-razza", si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi.

La vergogna (capitolo terzo):

"Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per la loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo". All'interno dell'intima riflessione sulla sua condizione, Primo Levi inserisce il tema della vergogna. Questo sentimento riguarda tutti coloro che non sono stati "sommersi", come lui, ma che hanno subito una sofferenza ugualmente grande. I "salvati", una volta riconquistata la libertà, sono individui consapevoli di essere stati "menomati", uomini privati di un passato e di un futuro, alienati, fino al punto da essere indotti al suicidio (del quale sarà anche lui vittima), pensiero che non era intervenuto durante la prigionia se non in sporadici casi per tre motivi avanzati: la condizione bestiale che non lasciava spazio a pensieri ragionati, paradossalmente i troppi impegni della giornata e infine il prevaricare della punizione inflitta attraverso la reclusione sul senso di colpa che riaffiora quindi nel momento della liberazione . L'autore infatti rileva come, nella maggior parte dei casi, l'ora della liberazione non sia stata in realtà lieta, come tutti saremmo portati a credere, ma sia stata l'ora della vergogna, l'inevitabile senso di colpa emerso dalla consapevolezza di non aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema da cui i prigionieri sono stati assorbiti. Ad accrescere questa sensazione di turbamento contribuisce la colpa di omissione di soccorso. "Mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza", afferma suo malgrado Levi. E' forse anche questo senso di vergogna, afferma l'autore nelle ultime righe del capitolo, ad averlo indotto a scrivere in memoria degli altri, dei "sommersi", appunto.

Comunicare (capitolo quarto):

Anche sotto l'aspetto della comunicazione, anzi, della mancata comunicazione, l'esperienza dei reduci è peculiare. Levi rileva, infatti, come per italiani, jugoslavi e greci, l'urto contro la barriera linguistica dei campi di concentramento sia avvenuto drammaticamente, in primo luogo perché non era possibile ritrovare dall’atra parte il desiderio di farsi capire: gli ordini venivano dati tranquillamente, poi ripetuti identici in tono rabbioso, infine urlati a squarciagola, accompagnati da calci e pugni "come si farebbe a un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto." Il sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Sul piano dell'immediato, non è possibile comprendere gli ordini, nè decifrare le prescrizioni: a riprova di ciò i primi giorni di prigionia non possono essere che ricordati come "un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava". In ultima analisi non si può sopravvivere, perché nel Lager senza informazione non si vive. Chi non capisce il tedesco, intendendo con tedesco quella sorta di lingua parallela propria dei lager e solo vagamente somigliante a quello originario, rischia di "annegare nel mare tempestoso del non-capire". Ed il non-parlare ha effetti devastanti sull'individuo, perché "con la lingua ti si secca il pensiero" e si realizza la crudele volontà di rendere l'uomo una bestia. Viene inoltre affrontato il tema della comunicazione con il mondo esterno al lager, che veniva disperatamente cercato e che dava a molti una sorta di speranza; si cercavano notizie dai prigionieri nuovi, si leggevano brandelli di vecchi giornali trovati casualmente e, sebbene fosse vietata la corrispondenza, venne da alcuni (tra i quali lo stesso Levi, che riconosce di dovere anche a questo la sua sopravvivenza) trovato il modo per comunicare con i familiari.

Violenza inutile (capitolo quinto):

"Il titolo di questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura offensivo: esiste una violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche non provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è tristemente utile: un mondo di immortali non sarebbe concepibile né vivibile." L'autore apre così il capitolo relativo alle inutili ingiustizie subite dagli internati nei campi di concentramento.

La sequenza di umiliazioni e offese gratuite inizia già dal metodo di deportazione: enormi carri merci, tuttavia non abbastanza grandi per il numero di persone stipate in essi per numerosi giorni senza cibo, acqua o un minimo di latrina.

Una delle più vane costrizioni con cui il prigioniero doveva fare i conti, una volta entrato nelle fredde stanze dove avvenivano la privazione degli abiti, delle scarpe e di tutti gli oggetti personali, era il taglio dei capelli e di tutti i peli. Al di là della necessità di maggiore pulizia, dato il proliferare dei pidocchi, questa violenza risultava offensiva per la sua inutile ridondanza. Un uomo nudo e scalzo è una preda inerme. La stessa sensazione debilitante di impotenza era provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio, un dettaglio apparentemente inutile, ma che marginale non era per un uomo che si nutriva ogni giorno di una sola e misera razione di zuppa. Non era una questione di risparmio, per i tedeschi, ma un preciso intento di umiliazione. A tutto ciò c’è da aggiungere l’assurdità dell’adattamento della vita concentrazionaria a una versione militare tedesca con regole ferree quanto insulse (dalla divisa con i suoi 5 bottoni obbligatori alla marcia cadenzata da musiche di banda, all’ordine del rifare i letti in un certo modo) e da segnalare è anche l’uso dei prigionieri come cavie umane per esperimenti scientificamente inutili in un’epoca in cui ci si chiedeva se sia giusto condurre esperimenti dolorosi su animali. Il discorso da farsi sul tatuaggio è leggermente differente, poiché questo fu invenzione auschwitziana autoctona. L'operazione, in sé, era poco dolorosa, ma lo era il suo significato simbolico: "Questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome." La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa. Era anche un ritorno barbarico: il tatuaggio, infatti, è vietato dalla legge mosaica. Violenza inutile era poi il lavoro non retribuito ed afflittivo. Non bisogna poi dimenticare quello che fu l'esempio estremo di una violenza ad un tempo stupida e simbolica: l'empio uso del corpo umano, gli esperimenti medici. E tale crudeltà si estendeva anche al cadavere, alle spoglie umane dopo la morte.

L'intellettuale ad Auschwitz (capitolo sesto):

In questo capitolo l'autore analizza l'esperienza dell'uomo colto alle prese con la realtà concentrazionaria. A tal proposito si rifà esplicitamente all'opera di un filosofo ebreo morto suicida: Hans Mayer, alias Jean Améry (Un intellettuale ad Auschwitz). Améry fu prigioniero in diverse prigioni naziste, ma le sue osservazioni si limitano ad Auschwitz: "I confini dello spirito, il non-immaginabile erano là."- Essere un intellettuale era in quel luogo di morte un vantaggio o uno svantaggio?-, si domanda Levi. Sul lavoro, che era prevalentemente manuale, in generale l'uomo colto stava in Lager molto peggio dell'incolto. Gli mancavano la forza fisica e la familiarità con gli attrezzi e l'allenamento, oltretutto, era tormentato più pesantemente da un acuto senso di umiliazione. Anche la vita in baracca era più penosa, poiché era una guerra continua di tutti contro tutti: i colpi dei tedeschi potevano essere passivamente accettati, ma quelli di un compagno, cui raramente l'uomo civile sapeva reagire, erano inaspettati e inaccettabili. Anche Améry, come Levi, afferma poi di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio e ne ha sofferto ancora di più perché era di lingua tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua. La cultura non poteva dunque servire che in qualche rara occasione (come per esempio nel caso del nostro autore, che fu salvato, oltre che dal caso, anche dal suo mestiere di chimico); ciononostante, in quelle poche situazioni la cultura poteva dare un forte aiuto, certo non dal punto di vista prettamente fisico, ma sicuramente moralmente: "Mi permettevano –i ricordi- di ristabilire un legame con il passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare.[...]. mi concedevano una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo, insomma, di ritrovare me stesso."

Stereotipi (capitolo settimo):

Questa parte è interamente dedicata alla rimozione dei falsi stereotipi che circondano la vicenda ebrea. "Bisogna guardarsi dal senno di poi -sostiene l'autore ricordando le domande a lui rivolte riguardo all'esperienza auschwitziana-, bisogna guardarsi dall'errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell'oggi: errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza nel tempo e nello spazio". Insomma, ardua è la comprensione dell'evento per chi non l'ha visto e vissuto.

"L'esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell'Occidente, e sempre più estranea si fa a mano a mano che passano gli anni."

Lettere di tedeschi (capitolo ottavo):

L'ultimo capitolo è riservato dall'autore ad alcune lettere da lui ricevute in seguito alla traduzione tedesca di Se questo è un uomo.

Racconta la sua iniziale diffidenza nella proposta di una edizione rivolta ai responsabili delle sue sofferenze, per paura che la sua opera venisse cambiata o ridotta, timore svanito dopo uno scambio epistolare con l’editore, prosegue poi liquidando la lettera di due coniugi di Amburgo che giudica "nazisti non fanatici ma opportunisti, pentitisi quando era opportuno pentirsi, stupidi quanto basta per farmi credere alla loro versione semplificata della storia moderna", infine con alcune altre lettere di giovani che hanno invece sollevato domande e questioni in modo più mirato e meditato e di Hety S. di Wiesbaden che molto lo aveva colpito con le sue idee.

Valentina Leanza e Valentina Bianchi